giovedì 2 settembre 2021

La verità è sempre illuminante: le interruzioni delle terapie

 



Quando ero una studentessa di psicologia, attraversai un periodo di forte fragilità: dentro di me iniziavano a sgretolarsi alcune certezze che lasciavano spazio a un forte smarrimento e ad un’angoscia profonda.

Come la maggior parte delle persone, provai inizialmente a utilizzare le risorse che avevo (interne ed esterne) ma dopo un po' di mesi, decisi di rivolgermi ad una psicoterapeuta. Ricordo ancora il suo nome e molti particolari delle sedute: sembrava competente, attenta e in gamba.

Tuttavia, dopo un paio di sedute, mi accadde un imprevisto economico che mi impedì di continuare; così, circa una settimana prima del nostro incontro, la chiamai per avvisarla che a malincuore ero costretta a sospendere il nostro lavoro.

Purtroppo, la sua reazione fu molto lontana da quello che mi sarei aspettato da una psicoterapeuta; cercò affannosamente di convincermi che dovevo trovare un modo per continuare la psicoterapia utilizzando frasi come “Tu ne hai bisogno” e “se serve cerca un lavoro, vai a raccogliere pomodori”.

In un primo momento, mi ritrovai nella posizione di chi doveva giustificarsi cercando di spiegare i diversi e ragionevoli motivi che mi impedivano di proseguire ma, subito dopo, mi accorsi che "c’era qualcosa che non andava". Ero sbigottita: la terapeuta non voleva lasciarmi andare, eppure non “ero poi così grave”, non ero depressa, non volevo suicidarmi e non avevo avuto uno scompenso psichico.

Mi resi conto che il suo tentativo di farmi cambiare idea era legato più ad un suo bisogno che al reale interesse verso di me.

La sua professionalità crollò in pochi secondi, quindi ribadii la mia volontà, salutai e chiusi la conversazione.

Ovviamente non tornai più da lei.


Perché vi racconto questa mia esperienza? Lo faccio per introdurre un argomento delicato: 

"Le brusche interruzioni delle terapie"

Capita ogni tanto, che qualche paziente, generalmente nella prima fase della psicoterapia, interrompa il percorso attraverso un messaggio, comunicando esclusivamente l’impossibilità di presentarsi in seduta. I motivi taciuti possono essere diversi: le aspettative magiche sulla psicoterapia (“starò meglio in 2-3 sedute”), la presa di coscienza che il terapeuta non dà consigli (siamo sempre in attesa della pubblicazione del manuale magico) o che la psicoterapia possa essere emotivamente faticosa (“Non volevo piangere”) o ancora la mancanza di “simpatia a pelle” verso il terapeuta.

Tuttavia, qualunque sia il motivo che spinga un paziente a interrompere bruscamente il suo percorso, un terapeuta attento, che nelle sedute precedenti, sarà stato empatico e  avrà ascoltato  non solo i fatti narrati ma anche e soprattutto, il flusso emotivo del paziente, saprà cogliere dietro quel messaggio, la difficoltà di esprimere apertamente le proprie perplessità in merito al percorso, ai temi trattati o alla relazione terapeutica.

Un bravo terapeuta dovrà solo accogliere la richiesta e riflettere su quella relazione terapeutica senza rincorrere il paziente. Certo non risponderà "ok va bene fai come vuoi" ma comprenderà le motivazioni o cercherà di farlo.

Ognuno di noi ha il diritto di cambiare idea, di interrompere un lavoro psicoterapico e dovrebbe sentirsi libero di potersi esprimere senza il timore che il terapeuta lo faccia sentire braccato.

Un paziente che sente di poter esprimere la verità anche quando può essere scomoda, imparerà che ci si può sentire accolti anche quando decide di fermarsi. 

I terapeuti, a loro volta, hanno bisogno sempre della verità perché questa consente loro di migliorare e, ci si augura, di fare un buon lavoro.

venerdì 28 maggio 2021

DACCI UN TAGLIO: RECENSIONE FILM NETFLIX

 

DACCI UN TAGLIO è un film Netflix del 2018, diretto da Haifaa Al Mansour, che ho iniziato a vedere dopo essere stata “folgorata” da una scena del trailer.

E’ una commedia leggera che offre, allo stesso tempo, molti spunti di riflessione su alcune importanti tematiche psicologiche.

La protagonista, la bella Violet, sembra che abbia tutto quello che ha sempre desiderato: la bellezza, una carriera importante, una relazione con un medico avvenente; ma ad un certo punto, quasi per effetto domino,  tutte le sue certezze iniziano a frantumarsi. Il punto di rottura (la mancata proposta di matrimonio da parte del suo uomo nel giorno del suo compleanno) porta a galla tutte le sue fragilità, costringendola a destrutturare il suo mondo e a mettersi in ascolto (profondo e doloroso) dei suoi reali bisogni, al di là delle aspettative sociali.

In questo film, i capelli della protagonista, sono una metafora della sua ricerca esasperata della perfezione: Violet non si mostra mai spettinata, nemmeno a letto, e questo comporta un dispendio di energie emotive di cui non si rende conto; dover essere perfette equivale a non poter mostrarsi vulnerabile nemmeno nelle relazioni più intime, non poter essere mai sé stessa per il timore di non essere all’altezza, di deludere gli altri, in poche parole, per il timore di non essere amate.

Gli attori, con la loro simpatia, ci mostrano alcuni condizionamenti familiari: i messaggi espliciti ed impliciti veicolati attraverso il tipo di educazione, le aspettative e i sacrifici genitoriali che inevitabilmente lasciano un segno nella vita dei figli. Emblematica è la scena in cui la madre stira accuratamente i capelli alla sua bambina (“da quando ero bambina i capelli erano la cosa più importante, dovevo essere sempre in ordine, solo allora ero perfetta”).

Violet cresce così, imparando un modo di fare e un modo di essere: “quello che gli uomini vogliono”.

Il film, in realtà, porta alla luce il vissuto di inadeguatezza di alcune donne afro-americane che cercano di adeguarsi agli standard estetici delle donne bianche, al punto da nascondere di avere i capelli ricci. Infatti, la madre di Violet, che da piccola veniva presa in giro per i suoi capelli, investe il suo tempo di mamma per rendere impeccabili quelli della figlia, al punto da vietarle di fare il bagno in piscina per il timore che anche lei possa essere derisa.

La commedia riguarda, però, tutte le donne e in particolare quelle occidentali, per le quali l’apparenza, l’immagine sono fondamentali; non è un caso che Violet lavori in un'azienda pubblicitaria che si occupa di prodotti di bellezza.

IL CAMBIAMENTO

La scena che, come detto all’inizio, mi ha folgorata, è quella in cui Violet si rasa i capelli; è un momento molto intenso, durante il quale, esplodono sul volto della protagonista diverse emozioni: l’esasperazione, il sollievo, la paura del cambiamento, la sensazione di libertà, lacrime di gioia e di dolore. È una scena che non ha bisogno di parole per coinvolgere lo spettatore e per spiegare quanto i cambiamenti importanti  siano pregni di ambivalenze, di paure, di speranze, e di sofferenza.

Infine, le parole del padre “tu credi di averlo fatto in un impeto improvviso, io credo sia un punto di arrivo” riabilitano il gesto della figlia, restituendo un significato profondo a quella che sembrava una “crisi emotiva”.

Ma, in fin dei conti, cos’è una crisi se non l’inizio di un cambiamento? E infatti Violet “si ritrova”: “avendo potuto mettere da parte la vanità ho potuto concentrarmi su altre cose di me stessa”.

 


 

 

lunedì 15 febbraio 2021

Non aspettare Godot: l’attesa e il valore del tempo


 

Vladimir ed Estragon stanno aspettando su una desolata strada di campagna un certo "Signor Godot". Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che indica il passare dei giorni attraverso la caduta delle foglie. Ma Godot non appare mai sulla scena, e nulla si sa sul suo conto. Egli si limita a mandare un ragazzo dai due vagabondi, il quale dirà ai due protagonisti  "Godot oggi non verrà, ma verrà domani".

 

Come nell’opera teatrale “Aspettando Godot”, nella vita, molto spesso, restiamo bloccati ad aspettare qualcosa o qualcuno procrastinando le nostre decisioni, immaginando vari scenari, ipotizzando alternative.  Intanto, il tempo scorre senza renderci realmente conto di quanto sia prezioso, mentre l’attesa, a sua volta, viene privata della sua reale bellezza.

Si aspetta “Godot” quando si hanno delle aspettative su ciò che è esterno a noi o quando si ha difficoltà a “lasciar andare”o a prendere decisioni. Più aspettative abbiamo su ciò che potrebbe cambiare, su ciò che l’altro potrebbe fare,  più restiamo inchiodati nell’attesa; il focus della nostra attenzione si sposta da noi (da ciò che vorremmo e meriteremmo) all’altro, a ciò che potrebbe fare, a ciò che potrebbe concederci.

Senza accorgercene, diventiamo spettatori di un lungo spettacolo dal finale deludente,  giungendo infine all’amara consapevolezza di aver pagato il biglietto ma aspettato invano.

“Dottoressa, perché fa così male lasciar andare? Non riesco a farlo e non voglio farlo…è come se mi  strappassero dei lembi di pelle! Al solo pensiero mi scoppia la testa, mi manca il respiro e mi sento vuoto.”

E allora riempiamo quel vuoto con il ticchettio del tempo che scorre… intanto che aspettiamo Godot! Ci aggrappiamo all’idea di ciò che poteva essere e la mente, come un faro, illumina soprattutto i ricordi belli  mentre gli altri restano in silenzio, dietro le quinte, e la nostalgia diventa protagonista.

Comprendere “quell’antica sensazione di vuoto” potrebbe aiutare a cambiare prospettiva, a non aggrapparsi troppo a qualcosa che non c’è più (o che in alcuni casi non c’è mai stata) e a non attendere più nel dolore.

Lasciar andare consentirebbe di guardare dal palcoscenico della propria vita, di vedere “l’insieme e non il particolare”; ma essa è un’arte che si impara con il tempo e a proprie spese.  Solo così, però, possiamo andare incontro al cambiamento che generalmente si rivela una seconda occasione di vita  a condizione che l’amore per sé stessi rimanga una priorità, che ci sia o meno Godot!