sabato 7 novembre 2015

Non saprò mai il perché: riflessione sul suicidio in adolescenza




Perché?” E’ la domanda ricorrente che continuano a porsi i genitori, i familiari e gli amici di Matteo, un adolescente suicida. Vivono con rimpianti e sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, per non aver colto la reale sofferenza nascosta dietro al suo sguardo, per non aver compreso i suoi comportamenti, le sue fioche richieste di aiuto.

Sopravvivere alla morte di un figlio, che ha deciso di togliersi la vita, provoca conseguenze psicologiche devastanti; chi perde una persona cara a causa del suicidio vive un’esperienza di vuoto riempita solo dall’eco di domande e di rimorsi. Si tratta di un lutto particolarmente difficile da elaborare sia personalmente che socialmente. 



Una fase delicata: l’adolescenza

L'adolescenza - afferma Donald Winnicott, noto psicoanalista inglese - "e' una scoperta personale durante la quale ogni soggetto e' impegnato in un'esperienza: quella di vivere; in un problema:quello di esistere"
Si tratta di una lunga e delicata fase di sviluppo che può comportare numerosi turbamenti poiché i ragazzi si ritrovano da una parte, a dover gestire le insicurezze derivanti dai cambiamenti somatici, psichici e relazionali e, dall’altra, a dover rincorrere e conquistare la visibilità e il riconoscimento sociale che la società odierna ci propone con i suoi stereotipi.


Il pensiero del suicidio è largamente diffuso nei giovani anche se, fortunatamente, solo una percentuale ridotta lo mette in pratica; tuttavia, esso rappresenta la seconda causa di morte giovanile in quasi tutti i paesi più evoluti (A.Piotti).
I ragazzi che tentano di togliersi la vita sono quasi tutti vittime degli ideali troppo elevati rispetto alla realizzazione scolastica, sociale, sentimentale. Essi spesso si convincono di essere odiati e rifiutati (Ash) o che le loro relazioni contino poco o nulla, ritenendosi inadeguati alla vita, alle sue richieste; s’innesca così un circolo vizioso in cui la vergogna e la perdita di autostima aumentano giorno dopo giorno mentre, parallelamente, la fragilità narcisistica dell’adolescente si amplifica fino al subentrare della vergogna di non fare nulla di decisivo per porre fine alla propria sofferenza. 
La malattia dell’adolescente suicida consiste nell’essere incapace di sperare; infatti la sua prospettiva del futuro diventa talmente angosciante che inizia a immaginare e a progettare la propria morte, vista come il solo anestetico possibile al proprio dolore (Baumeister). 

Prevenire il suicidio

I fattori di rischio suicidale hanno origini profonde nella mente dell’adolescente e non hanno a che fare con il ricatto amoroso o con atti dimostrativi.
Le fantasie suicidali generalmente sono coltivate in segreto: i ragazzi raramente le comunicano direttamente agli adulti mentre le ragazze preferiscono annotarle nei diari o chattare con qualcuno che condivida le stesse inquietudini.
Qualsiasi "agito" in adolescenza rappresenta un tentativo di comunicazione nei riguardi degli adulti di riferimento, che sono dunque chiamati a fornire risposte adeguate e tempestive al segnale di disagio. Come sostiene Gustavo Pietropolli Charmet, “se un giovane dà segni di voler morire, anche fasulli, è ovvio che qualcosa di grave c’è”. Quando ci si trova davanti a segni evidenti di atti auto lesivi (tagli, graffi, ecc.) è fondamentale evitare atteggiamenti di sottovalutazione o di indifferenza. È indispensabile quindi non banalizzare mai un gesto del genere perché potrebbe indurre l’adolescente ad “alzare il tiro” ed a commettere un atto irreparabile. 

L’adolescente che ha deciso di uccidersi, generalmente, programma nel dettaglio il suo progetto suicidale (orario, luogo, eventuali spettatori), pertanto, il controllo dei suoi movimenti e/o spostamenti non serve quasi a nulla. Invece, ciò che risulta non solo utile ma indispensabile per prevenire un tale gesto è la presenza, il calore, il dialogo, la condivisione del tempo e la “condivisione del pianto che cerca solo carezze ma aborrisce le domande e i perché” (G.P.Charmet). Dunque il legame è l’unico rimedio alla voglia estrema di farla finita.

Il lavoro psicologico con un adolescente, che ha manifestato il desiderio di voler morire o che ha tentato il suicidio, deve essere considerato un lavoro di media-lunga durata, tempo necessario per “far germogliare il seme della speranza”. Tale lavoro non deve essere interrotto ai primi segni di miglioramento (presenti soprattutto nelle settimane seguenti un tentato suicidio) poiché essi possono essere attribuibili alle maggiori attenzioni e premure da parte di tutti e conseguentemente all’incremento della sua autostima. 
Un lavoro talmente complesso e delicato come questo necessita del coinvolgimento della famiglia, la risorsa primaria alla quale l’adolescente deve sentire di poter fare ritorno nel momento del bisogno e di potersi affidare, senza il timore di manifestare le proprie fragilità.
Uno spazio terapeutico è indispensabile per gli stessi genitori che vivono in un clima emotivo caratterizzato dalla costante preoccupazione che il figlio possa mettere in atto un gesto disperato. Essi si sentono spesso schiacciati dal senso di colpa e dall'idea di non essere stati sufficientemente bravi o buoni, provando inevitabilmente vergogna e imbarazzo. L’impatto emotivo causato dalla probabilità di un attacco alla vita è talmente violento da renderli spesso impreparati su cosa dire o su come comportarsi. Anche loro, come i loro figli, si ritrovano nella dolorosa e ambivalente situazione di “contenere e gestire” le proprie fragilità e insicurezze e, al tempo stesso, mostrarsi forti per proteggere, con le unghie e con i denti, “i propri cuccioli” anche da loro stessi. 
Ed è proprio per questo che essi meritano il sostegno e la comprensione tanto quanto i loro figli.