Quando ero una studentessa di psicologia, attraversai un periodo di forte fragilità: dentro di me iniziavano a sgretolarsi alcune certezze che lasciavano spazio a un forte smarrimento e ad un’angoscia profonda.
Come la maggior parte delle persone, provai inizialmente a utilizzare le risorse che avevo (interne ed esterne) ma dopo un po' di mesi, decisi di rivolgermi ad una psicoterapeuta. Ricordo ancora il suo nome e molti particolari delle sedute: sembrava competente, attenta e in gamba.
Tuttavia, dopo un paio di sedute, mi accadde un imprevisto economico che mi impedì di continuare; così, circa una settimana prima del nostro incontro, la chiamai per avvisarla che a malincuore ero costretta a sospendere il nostro lavoro.
Purtroppo, la sua reazione fu molto lontana da quello che mi sarei aspettato da una psicoterapeuta; cercò affannosamente di convincermi che dovevo trovare un modo per continuare la psicoterapia utilizzando frasi come “Tu ne hai bisogno” e “se serve cerca un lavoro, vai a raccogliere pomodori”.
In un primo momento, mi ritrovai nella posizione di chi doveva giustificarsi cercando di spiegare i diversi e ragionevoli motivi che mi impedivano di proseguire ma, subito dopo, mi accorsi che "c’era qualcosa che non andava". Ero sbigottita: la terapeuta non voleva lasciarmi andare, eppure non “ero poi così grave”, non ero depressa, non volevo suicidarmi e non avevo avuto uno scompenso psichico.
Mi resi conto che il suo tentativo di farmi cambiare idea era legato più ad un suo bisogno che al reale interesse verso di me.
La sua professionalità crollò in pochi secondi, quindi ribadii la mia volontà, salutai e chiusi la conversazione.
Ovviamente non tornai più da lei.
Perché vi racconto questa mia esperienza? Lo faccio per introdurre un argomento delicato:
"Le brusche interruzioni delle terapie"
Capita ogni tanto, che qualche paziente, generalmente nella prima fase della psicoterapia, interrompa il percorso attraverso un messaggio, comunicando esclusivamente l’impossibilità di presentarsi in seduta. I motivi taciuti possono essere diversi: le aspettative magiche sulla psicoterapia (“starò meglio in 2-3 sedute”), la presa di coscienza che il terapeuta non dà consigli (siamo sempre in attesa della pubblicazione del manuale magico) o che la psicoterapia possa essere emotivamente faticosa (“Non volevo piangere”) o ancora la mancanza di “simpatia a pelle” verso il terapeuta.
Tuttavia, qualunque sia il motivo che spinga un paziente a interrompere bruscamente il suo percorso, un terapeuta attento, che nelle sedute precedenti, sarà stato empatico e avrà ascoltato non solo i fatti narrati ma anche e soprattutto, il flusso emotivo del paziente, saprà cogliere dietro quel messaggio, la difficoltà di esprimere apertamente le proprie perplessità in merito al percorso, ai temi trattati o alla relazione terapeutica.
Un bravo terapeuta dovrà solo accogliere la richiesta e riflettere su quella relazione terapeutica senza rincorrere il paziente. Certo non risponderà "ok va bene fai come vuoi" ma comprenderà le motivazioni o cercherà di farlo.
Ognuno di noi ha il diritto di cambiare idea, di interrompere un lavoro psicoterapico e dovrebbe sentirsi libero di potersi esprimere senza il timore che il terapeuta lo faccia sentire braccato.
Un paziente che sente di poter esprimere la verità anche quando può essere scomoda, imparerà che ci si può sentire accolti anche quando decide di fermarsi.
I terapeuti, a loro volta, hanno bisogno sempre della verità perché questa consente loro di migliorare e, ci si augura, di fare un buon lavoro.