Con
il termine “panico” si intende uno stato di terrore difficilmente domabile
provocato da un evento improvviso. L’etimologia deriva dal Dio “Pan” della
mitologia greca; la leggenda narra che Pan, nato dall’unione tra il dio Ermes e
la ninfa Driope, fu abbandonato alla nascita dalla madre, la quale, inorridita
dalla sua bruttezza, si rifiutò di allevarlo. Pan infatti era dotato di
un’espressione terrificante e aveva un corpo per metà uomo e per metà capra, con
corna, zampe irsute e zoccoli; era il
Dio delle greggi, dei boschi e degli animali, un “Dio solitario dotato di una voce spaventosa che incuteva una grande
paura (da qui il nome panico). Tuttavia, contrariamente al suo aspetto
fisico, era un dio gioviale e generoso, sempre pronto ad aiutare chi chiedesse
il suo aiuto.
Così come il Dio Pan aveva un
duplice aspetto, non solo fisico ma anche caratteriale, allo stesso modo, in
questo articolo, cercheremo di vedere la “l’altra faccia” del panico, ovvero, la sua utilità
dal punto di vista terapeutico.
Il
Panico: non solo questione di psiche
Il
DSM V (Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali) definisce
l’attacco di panico “Un improvviso
attacco di intensa paura o intenso disagio, che raggiunge il culmine in breve
tempo (nell’ordine dei minuti) e comprende sintomi come tachicardia, sudorazione,
sensazione di soffocamento,
dolore al petto,
paura di perdere il controllo o di
impazzire, paura
di morire.
Chi
soffre di Panico, infatti, teme spesso che il disturbo sia solo nella sua
testa, quasi fosse un’invenzione, uno scherzo beffardo della propria
psiche. In realtà corpo e psiche sono sempre strettamente interconnessi
e ciò vuole dire che il modo in cui ci sentiamo ha anche un correlato neuro-fisiologico.
Per poter comprendere l’attacco di
panico è necessario, innanzitutto, tener presente che la paura è una risposta
dell’organismo di fronte ad un pericolo
(reale o immaginario); essa è, quindi, funzionale alla sopravvivenza
dell’essere vivente.
L’attacco
di panico si manifesta spessissimo in situazioni quotidiane che non hanno mai
rappresentato un problema per l’individuo (es. guidare l’auto, salire su un
treno, ecc.); di conseguenza, non sempre si riesce a comprendere l’esordio del
sintomo che appare, in un primo momento, immotivato e imprevedibile. Se però, lo si
guarda nella sua complessità, si può notare che generalmente si manifesta in
periodi di transizione che determinano stress e/o cambiamenti.
Il
nostro cervello, e in particolare l’amigdala ( una piccola struttura a forma di
mandorla che si trova nel sistema limbico) funziona come un rilevatore di fumo,
individua, cioè, se l’informazione in entrata sia rilevante o meno per la
nostra sopravvivenza. Se l’informazione è percepita come una minaccia, l’amigdala
attiva immediatamente l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), con rilascio di
cortisolo e il sistema orto-simpatico con il rilascio di adrenalina.
In
parole più semplici, di fronte al pericolo, il nostro corpo reagisce attraverso
uno stato di iperattivazione con le
conseguenti risposte di attacco-fuga (es. fuggire per mettersi in salvo o attaccare l’avversario quando ci sentiamo
minacciati). Questa iperattivazione produce ovviamente delle reazioni dal punto
di vista fisiologico, come la vasocostrizione periferica cutanea (“pelle
d’oca”, pallore, sudorazione), la diminuzione della salivazione, il tremore
agli arti, lo svuotamento della vescica ecc.; mentre, dal punto di vista
emotivo si sperimentano reazioni come impotenza, terrore, paura di morire e/o di impazzire.
L’insieme
di queste reazioni psico-fisiche suscitano nel soggetto il timore di una “dissoluzione”
mentale e fisica; possiamo comprendere, quindi, quanto un attacco di panico
rappresenti un’esperienza traumatica in sé (Faretta, 2001).
Il
timore che questa esperienza terrificante possa riaccadere diventa soverchiante
al punto che l’individuo cerca di proteggersi attivando strategie di evitamento
( restare a casa, uscire il meno possibile, ecc.) che a lungo andare compromettono
la propria vita sociale e lavorativa, innescando
un circolo vizioso dal quale è difficile
uscire.
Il
panico e il mondo interno
Gli
attacchi di panico si presentano generalmente in giovani adulti in fase di
svincolo mentre iniziano a organizzare la propria vita autonoma (non a caso
molti attacchi di panico si verificano nei primi periodi universitari). La
capacità di farvi fronte, dipende infatti dal suo livello di individuazione e
dal livello di individuazione raggiunta nei suoi confronti dagli altri membri
del nucleo familiare (Cancrini, 1991).
Secondo
la teoria psicodinamica classica, l’origine dell’ansia deriva da situazioni
traumatiche precoci, intese come situazioni frustranti dalle quali il bambino
viene sopraffatto, determinando la condizione di bambino abbandonato, bisognoso
e solo (Ammaniti, 2001).
Una
caratteristica dei pazienti che soffrono di attacchi di panico è il sentimento
di solitudine e la conseguente paura (non consapevole) di restare da soli. Potremmo
quindi ipotizzare, come sostiene Francesetti, che il disturbo di panico sia un
attacco acuto di solitudine, la stessa solitudine sperimentata probabilmente da Pan dopo essere
stato abbandonato ed esposto precocemente al mondo senza protezione. L’essere umano, del resto, come sosteneva
Aristotele, è un animale sociale.
Tuttavia,
nella nostra cultura occidentale, dove predomina il culto dell’individualismo e
del super uomo, si assiste ad una delegittimazione silenziosa e ad una
negazione del bisogno di essere supportati. Ne consegue che il sentimento di
solitudine e la paura ad esso associato,
non sempre sono consapevoli.
Chi
soffre di attacchi di panico spesso ha la
convinzione di essere debole, di non saper gestire le proprie emozioni e vive con
la paura del giudizio esterno, la quale aumenta ogni volta che il sintomo si
manifesta in pubblico. Frequentemente, l’attacco di panico funge da spartiacque
tra il prima e il dopo “Sono stato sempre
una persona molto forte, un punto di riferimento per tutti, e ora non mi
riconosco” e di conseguenza, la persona che ne soffre sente la propria
identità sgretolarsi. A questo vissuto si accompagnano sentimenti di vergogna e
di inadeguatezza, che induce chi le prova a isolarsi e a restare bloccato nella “falsa”
zona di confort invece di chiedere aiuto.
E’indispensabile
precisare che nonostante la diagnosi possa essere la stessa per diverse persone,
quello che conta è comprendere l’unicità del dolore personale che è sempre strettamente
intrecciato alla propria storia di vita.
L’obiettivo
di un percorso psicoterapico è quello di aiutare il paziente a diventare
consapevole delle emozioni più nascoste, partendo dagli eventi scatenanti per
giungere agli eventi originari, ossia i “Traumi” (generalmente di origine
relazionale). Inoltre, seguendo un'ottica sistemica, è importante far
luce sulle conseguenze del sintomo all'interno delle relazioni del paziente.
Il
lavoro terapeutico consente, perciò, di ricostruire
prima e “ri-narrare” poi, la propria storia dotandola di un nuovo significato; infine, fornisce nuovi strumenti per
fronteggiare gli eventi interni ed esterni al sé. Ecco quindi che l’attacco di
panico si trasforma in un’occasione preziosa per dare alla luce una parte di sé,
passando prima tra le intemperie delle proprie fragilità e delle proprie
emozioni.